Domenica
Domenica, il cantiere ora mi appartiene.
Mi piace passeggiare tra i mucchi di sabbia, ghiaia, pietre, entrare nel deposito – sotto una tenda – e controllare che tutti gli strumenti siano riposti ordinatamente e puliti, che i sacchi di cemento siano accumulati e protetti; mi piace sentire il profumo del legname accatastato.
Mi dà un’infinita pace sedermi sui muri ancora solo abbozzati e, sotto il sole che brucia, ascoltare il vento incessante e caldo che fischia tra i ferri e tra le impalcature.
Il cantiere, deserto di uomini e silenzioso, di nuovo possesso di capre e asini che brucano l’erba riarsa mi appare quasi fuori dal tempo, quasi un luogo dove possano vivere e rivivere immagini che vengono da lontano.
Così diverso questo cantiere da ciò che sono abituato a vedere in Italia; diverso perché risuona sempre delle risa e dei motteggi degli operai, diverso perché non è assordato dal rumore di macchinari ma è percorso dal rumore ritmico delle mazze che spaccano le pietre e degli scalpelli che le tagliano e le formano, diverso perché non è un luogo in cui è “vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”.
All’ora di pranzo le mogli vengono in cantiere con i figli e si mangia assieme all’ombra di un grande albero, le persone che passano per i sentieri vicini deviano e si fermano ad informarsi di come procede il lavoro, come va la salute, come stanno i parenti, le ragazze – civettando con gli operai più giovani – distribuiscono l’acqua, i bambini devono essere cacciati a male parole perché non vengano a giocare con carriole, pale e mazze o sui mucchi di sabbia.
Non ci sono steccati, chiusure, divisioni, tutto è vissuto assieme in una cacofonia di voci che ti fa sentire parte stessa della comunità e la comunità è parte stessa del cantiere.
Il cantiere procede lento, pietra dopo pietra; niente gettate che cambiano da un giorno all’altro la prospettiva della costruzione, niente silhouettes di gru che svettano ma rampe di pietre coperte di sabbia e catene di braccia che si passano i secchi d’acqua per impastare il cemento.
Non è una cattedrale quella che sta nascendo sotto i miei occhi, è una semplice scuola ma, ugualmente, mi piace pensare che, come le sue grandi sorelle gotiche, essa nasce per la gloria del Grande Architetto dell’Universo.
Guardo le pietre ancora vergini, le schegge di quelle lavorate.
Tutto sa di antico, tutto ritorna ad una sapienza ancestrale, un brivido percorre la schiena.
Ciascuna pietra ha una sua funzione ed una sua posizione, niente può avvenire per pura casualità; la pietra di spacco, più morbida e lavorabile, per gli angoli , la pietra di fiume, solida, dura e resistente a rinforzo e base del muro.
Ciascuna pietra deve essere presa in mano, sollevata, soppesata, osservata, ti deve parlare perché per una e solo per una c’è la posizione perfetta. Non basta che la pietra abbia la sua collocazione, è necessario ritoccarla con la mazzetta – poco per volta, per passaggi successivi – affinché si allochi nel modo più corretto.
I colpi del maestro muratore sono, di volta in volta, secchi o leggeri – quasi carezze – e la pietra risponde e si plasma docile.
La malta la accoglie e la lega alle altre. Ciascuna è una ma solo assieme formano un tutto che acquista forma e consistenza.
Oggi come allora non esiste una scuola ove si impara a parlare con le pietre, oggi come allora solo pochi possono sentire, percepire, scegliere con un colpo d’occhio la pietra giusta in un mucchio informe. Oggi come allora non è il colore della pelle, lo stato sociale, la cultura; oggi come allora sono esse, le pietre, che ti scelgono affinché tu possa diventare lo strumento che le innalza verso il cielo.
Gros vaud, 26 giugno 2011