Un’esperienza di vita

Un’esperienza di vita

Ci sono nella vita di ognuno emozioni che restano nel cuore e nell’animo divenendo un elemento portante, costitutivo dell’intimo e che, per quanto mi riguarda, hanno la capacità di riaffiorare nei modi e momenti più impensati: evocati da un profumo, un rumore, le nuvole, un cielo particolare, un colore, una voce che mi sta portando a rivivere con il pensiero, ma non solo, sensazioni particolari – che non esito a definire speciali ed uniche nella loro semplicità – che convivono con il mio essere più intimo e che mi aiutano a dare un valore vero a tanti attimi della vita.

Mi chiamo Antonella, sono medico – anestesista rianimatore – che, come molti colleghi, ha lavorato nella struttura pubblica cercando di conciliare la vita professionale con quella personale; con una figlia, cresciuta tra nido, asilo, babysitter, che ora ha ventidue anni. Credo di non essere la sola ad aver sognato, soprattutto appena laureata, di poter esercitare la professione di medico mantenendo fede, nel vero senso del termine, al giuramento di Ippocrate; finalmente, solo pochi mesi fa, sono riuscita a realizzarlo anche se per un breve periodo andando come volontaria ad Haiti in seguito al disastroso sisma del  12 gennaio 2010.

Tutto è nato quasi per caso quando la persona con cui ho condiviso gran parte della mia vita, padre di mia figlia, è partito per Haiti come volontario con l’associazione Ayiti cheri per portare un primo aiuto a quelle popolazioni, già stremate dalla povertà, alle quali il terremoto aveva distrutto anche il minimo necessario alla sopravvivenza.

Da quel momento l’entusiasmo per quanto avrei potuto provare a fare mi ha dato una forza ed una volontà che credevo non facessero ormai più parte della mia vita professionale, e personale.

Siamo partite a fine maggio, mia figlia Ginevra ed io, cariche di valigie e sacche piene di medicinali e quant’altro avrebbe potuto esserci utile, soddisfatte per essere riuscite a raccogliere tutto questo materiale, indispensabile, necessario ed importante e ben nascosto per problemi di dogana, in seguito alle precise e preziose indicazioni di chi già si trovava a contatto con quella realtà. L’aiuto economico di amici, colleghi medici e farmacisti, pronti e generosi nel metterci a disposizione quello che ci necessitava, è stato estremamente gratificante ed al momento della partenza ero indubbiamente molto emozionata e, non lo nego, alquanto preoccupata di quello cui sarei andata incontro sia sotto il profilo professionale che, soprattutto, quello umano ed emotivo.

Ho trovato una realtà, difficilmente descrivibile con le parole; non vi sono parole adatte a descrivere condizioni di vita poco sopra la soglia di sopravvivenza perché non esistono termini che rendano comprensibile la rassegnazione, l’accettazione quasi passiva del tutto, compresa la percezione di quanto poco valga una vita umana. Un luogo dove tutto è legato al destino, dove la morte, potrei dire quasi per assurdo, vale quanto la vita perché accettata come evento naturale della stessa esistenza. Morte condivisa dall’intera comunità – non solitaria come spesso avviene nella nostra società moderna dove, dentro stanze anonime, l’uomo non è più un essere umano, ma un corpo “vivo” solo perché c’è ancora un’attività cardiaca supportata da sofisticati e dispendiosi macchinari – vissuta come evento normale e naturale che conclude la vita così come, la nascita, la inizia, mentre la vita va avanti.

Trovarmi accanto a queste persone, immersa nella loro realtà, mi ha permesso di valutare come anche noi si possa davvero riuscire a vivere e sorridere con poco, per non dire niente, riuscendo a gioire delle poche cose positive, le stesse a cui fino ad ora non abbiamo magari dato importanza; un esempio tra tutti, la gioia e l’allegria di bambini che ci correvano incontro quando sentivano il rumore della nostra jeep.

E’ necessario, però, avere il coraggio e la forza di spogliarsi veramente di tutte le sovrastrutture che ci caratterizzano, con le nostre necessità e certezze di vita a cui siamo per cultura, tradizione e forse anche paura, attaccati e che ci danno sicurezza.

Con tutta onestà devo però ammettere che i primi momenti in Haiti sono stati molto difficili; mi sono sentita derisa dai loro sguardi quasi sprezzanti – solo in apparenza come ho poi compreso – pervasa quasi da un senso di rabbia impotente per come mi ponevo, perfino per come mangiavo. Solo dopo aver capito che se non fossi scesa dal mio piedistallo di “volontaria” europea non avrei mai risolto questo mio problema e solamente quando ho cominciato a sorridere a chi mi guardava, lasciarmi toccare i capelli o le braccia dai bambini, condividere quello che avevo con loro ho sentito di essere stata accettata come un essere umano, senza diffidenza, ma con “amicizia”.

Da quel momento sono diventata “le docteur italienne” accolta sempre con il sorriso sulle labbra, osservata da grandi occhi neri – che difficilmente dimenticherò – che mi fissavano talvolta con tenera spavalderia ma, sempre, con una dolcezza particolare mista a curiosità; tutti mi stavano attorno come per fare a gara a conquistarsi un sorriso, un’attenzione in più, una risposta alle loro difficoltà fisiche e non nego che, più di una volta, mi sono trovata in difficoltà  perché da me si aspettavano la soluzione a tutti i loro mali.

Solo allora, sento di poterlo ora affermare con assoluta serenità, ho capito che fino a quando l’uomo “bianco” si sentirà, pur convinto del contrario, superiore – del resto quando siamo chiusi nel nostro piccolo e sicuro universo è facile essere pervasi da un razzismo malcelato e strisciante aspettandoci, comunque,  una qualche gratificazione – non sarà mai in grado di comprendere cosa significhi l’eguaglianza della dignità umana e le differenze culturali continueranno a restare una penosa scusa dietro cui trincerarsi per vigliaccheria o paura.

Per concludere alcune considerazioni professionali: nelle comunità dove era stato possibile rendere l’acqua potabile e di conseguenza, prima del mio arrivo, trattare i bambini con i farmaci antiparassitari, questi erano in discrete condizioni di salute a differenza di quelli dove non era stato possibile questo trattamento sia per problemi di reperimento delle fonti idriche, sia perché erano ancora in corso i lavori per realizzare i sistemi di potabilizzazione.

Posso comunque affermare che escludendo alcune forme di infezioni delle prime vie aeree pediatriche – chiamate in lingua creola genericamente “gripe” – alcune anche gravi per cui si è reso necessario il ricovero ospedaliero, non ho trovato patologie particolarmente gravi nei bambini. Incredibile era invece il numero di ferite infette e purulente complicate dalla mancanza di igiene e disinfezione, che, fortunatamente, miglioravano velocemente fino alla guarigione, previa pulizia e disinfezione, con un trattamento breve, talvolta unico, con semplici pomate antibiotiche. Ciò a dimostrazione dell’importanza, se non indispensabilità, di questi farmaci che, se usati quando realmente necessari, si dimostrano estremamente efficaci in popolazioni non assuefatte all’uso.

La maggior parte della restante popolazione dei villaggi in cui mi sono trovata ad operare e che ho potuto visitare era composta soprattutto da donne poco più adolescenti con esperienze sessuali fino dalla prima adolescenza (11-12 anni), spesso con già con tre o quattro figli – non esistendo purtroppo alcuna forma di educazione sessuale e di prevenzione – con una percentuale solo presupposta, ma molto elevata, di sieropositività  fino all’ AIDS conclamata.

Un aspetto mi ha colpito particolarmente: dopo qualche giorno di lavoro nelle tre comunità, è stata la quasi totale assenza di popolazione anziana – intendendo per anziani gli ultra cinquantacinquenni – che, su una popolazione di 1.500/2.000 persone, non superavano la decina di unità e tra l’altro con un aspetto fisico – evidentemente per le condizioni di salute scadenti – che li faceva apparire molto più avanti con gli anni, pur dovendo ammettere l’impossibilità di risalire alla vera età poiché non è mai esistito, né esiste tuttora, un riferimento anagrafico di qualsiasi tipo.

Una malattia devastante in quelle zone è la malaria, endemica fino dall’infanzia e causa di mortalità elevata che motiva così la brevità della vita media che, nella Repubblica haitiana è intorno ai 45 anni.

L’impossibilità di poter trattare a lungo termine, o meglio a vita, questa patologia mi ha dato un profondo senso di frustrazione e sconfitta mitigata solo in parte dalla speranza che, in un prossimo futuro, si dovrebbe e potrebbe trovare il modo di mandare dall’Italia i farmaci necessari istruendo i medici locali con i protocolli di trattamento dei pazienti.

Infine una considerazione, forse banale, che mi ha fatto e mi fa riflettere sui tanti aspetti della nostra vita agiata quale, indubbiamente, conduciamo e che oggi, nel mio piccolo, cerco di applicare nella professione: se fosse possibile utilizzare una percentuale minima di quanto spesso usiamo e sprechiamo in campo sanitario e farmacologico nei paesi poveri, potremo salvare – o almeno permettere una qualità di vita migliore ed una sopravvivenza maggiore – a innumerevoli vite; ciò anche solo provando a ridurre l’uso e l’abuso di tanti farmaci che ci teniamo in casa e spesso buttiamo ancora intonsi perché oramai scaduti.

Antonella Pastorini