Sotto un cielo di stelle
Ganthier 26 aprile 2010
Qui sono Mauissiò, in creol la “r” si pronuncia “u” ed il resto …. viene di conseguenza; <Mauissiò te la senti di andare a organizzare la potabilizzazione nelle comunità in montagna? Lassù non andrà mai nessuna organizzazione >.
A queste parole del Sindaco di Ganthier come puoi rispondere se non …. <d’accordo, quando ? >
Non ci sono strade per arrivare alle comunità di montagna né per passare dall’una all’altra, solo sentieri sassosi da percorrere a piedi – rare volte a cavallo, se lo trovi – possibilmente di notte o prima dell’alba per ridurre il tempo in cui il sole ti cuoce il cervello. Tre giorni in un paesaggio desertico e, per giungere alla prima comunità, sette ore e mezza di salita, continua, ripida, impietosa, su cui ho pensato davvero di non riuscire a giungere alla fine.
Niente più gambe, solo muscoli che si rifiutano di continuare; niente più fiato, solo l’affanno che ti fa dolere il petto; niente più dignità in un Indiana Jones che chiede disperatamente di fermarsi ancora, ancora solo una volta e che deve essere rialzato a braccia per ripartire sotto lo sguardo compreso – ma anche divertito – delle due guide.
Una “gita” in montagna faticosa oltre le aspettative ma che mi ha permesso di conoscere una realtà ancora – se possibile – più difficile e diversa, permesso di “sentire” la fatica di una vita dove non c’è davvero spazio per ciò che non è assolutamente indispensabile alla sopravvivenza, dove ogni cosa ha un valore infinito perché l’ottenerlo è spaventosamente lungo e faticoso; dove anche solo un mezzo bicchiere di acqua non bevuta non si getta ma si utilizza per qualche altra cosa. Una vita dove bagnarti la testa con un litro di acqua fredda perché arrivi sfinito, accaldato, sulle ginocchia, è un regalo che fai solo se senti dentro la generosità ed il concetto grande di ospitalità verso chiunque si affacci alla tua porta.
Una “gita” che mi ha permesso di vedere, non solo immaginare dalle leggende o nella storia, i saggi della comunità riuniti sotto un albero ad ascoltare, a discutere con pacatezza con il solo obiettivo del bene della comunità, a rivolgersi con semplicità, senza affettazione ma anche senza alcuna deferenza ad uno sconosciuto che era salito lassù per loro.
Una “gita” che mi ha permesso di sentire un lungo brivido attraversarmi tutto il corpo quando, appoggiato con la schiena alla capanna dove avrei dormito, nel buio più completo, nel silenzio più totale si è levato il canto solitario di una giovane donna, la cui presenza potevo soltanto percepire, che ha riempito di dolcezza il mio Tempio sotto un cielo di stelle.
Una “gita” che mi ha fatto cogliere la forza che si può trarre da un incontro nel buio, su un sentiero scosceso: sedersi un attimo assieme, scambiarsi poche parole cercando di comprendersi in una lingua diversa, un biscotto, un sorso di acqua, due mani che si stringono, visi che non si vedono ma, nel tuo viaggio, non ti senti più solo; ci saranno altri incontri, tutti saranno con sconosciuti che, scopri, di non sentire sconosciuti ma persone che condividono con te un attimo che vorresti non finisse.
Forse, se cominciassimo a pensare che siamo dei portatori di azioni e non distributori di aiuti, riusciremmo a rendere più concreta la nostra azione colmando quel vuoto che, comunque, continua a dividerci. Noi di qua, loro di la; noi diamo e loro passivamente ricevono.
Questa è la logica, troppo spesso, delle ONG; logica che ogni giorno mi è più difficile condividere.
Se non riusciremo, noi per primi a toglierci le rutilanti giacchette che proclamano il nostro stato di “operatori umanitari”, di “portatori di aiuti”, se non riusciremo a staccare le patacche dalle nostre 4×4 – patacche che ci “rendono visibili”, importanti, superiori – per diventare, forse, più oscuri, più umani, più uguali, più capaci di abbracciare, non solo fisicamente, l’umanità che abbiamo di fronte, allora difficilmente potremo riuscire a comprendere il nostro interlocutore: comprendere le sue vere necessità, oltre il materiale, comprendere i suoi condizionamenti culturali, i costumi fortemente diversi, le sue ataviche diffidenze, il suo razzismo verso chi viene percepito, comunque, estraneo, il suo porsi come vorace ed inestinguibile divoratore degli aiuti stessi vivendoli, in fondo giustamente, fini a se stessi, buoni per un giorno, meravigliosi finché durano, cose da usare e non da condividere con chi li porta.
Questo è ciò che vorrei cambiare, almeno nel mio modo di pormi; vorrei riuscire ad entrare nelle case, non per vedere ma per sedermi e condividere magari anche solo parole, mangiare con loro avendo il coraggio di “non avere paura di cosa mi può succedere”, consumare assieme gli “aiuti” perché sono “nostri”, non gettati sul viso dall’alto della camionetta ma dati da mano a mano, da persona a persona; lavorare ai “loro” progetti e per le “loro” idee perché sono pensate e fatte da loro e per loro e non calate secondo le nostre logiche, spesso incomprensibili.
Vorrei riuscire a condividere la responsabilità di ciò che facciamo – perché lo facciamo assieme – ed essere capace di mostrare loro il valore vero di ciò che porta scritto la loro bandiera “l’unione fa la forza”.
Nessuna emozione oggi, nella giornata della ennesima “distribuzione di contributo alimentare” ai bambini ma l’amara sensazione di avere sbagliato tutto, di avere fatto tutto il contrario di ciò che ho appena scritto sopra.
Lunedì sarà tutto diverso; tutto dovrà cominciare ad essere diverso.
Non voglio vedere bambini che si accalcano, si spintonano; vengono usati dagli adulti per avere doppia razione, vengono derubati dai più forti o mamme che si accapigliano per una galletta ed un bicchiere di latte. Voglio che quel momento non diventi, ancora una volta, violenza, sopraffazione, paura.
Voglio sia serenità, allegria, canto e gioco.
Questo dovrò realizzare: li voglio tutti assieme, seduti, tranquilli, con la consapevolezza che nessuno sarà dimenticato. Il più fragile come il più prepotente avranno ciò che è per loro come lo avranno tutti coloro che ne hanno bisogno, anziani (così rari), donne e uomini più fragili o malati.
Grande ed infinita utopia probabilmente, per questo credo mi interessi sempre meno tornare per raccontare e mi interessi sempre di più tacere ma avere dentro di me la forte consapevolezza di avere fatto non ciò che è giusto per me ma ciò che è giusto per loro; non avere provato a farlo ma averlo fatto davvero.
Maurizio Boganelli