Tre settimane ad Haiti

E’ meno di un mese che sono rientrata in Italia, ma la nostalgia è già così forte da farmi guardare sul calendario dell’anno prossimo quando eventualmente potrei tornare ad Haiti. Le tre settimane trascorse a Gros Vaud, infatti, hanno senza dubbio costituito una delle esperienze più intense ed arricchenti che mi sia finora capitato di vivere.

Non è facile, anzi forse impossibile, descrivere una realtà così lontana dalla nostra e in cui a dominare, sempre, è un gran senso di precarietà e, ancor più terribile, la mancanza di prospettiva. Di qui la diffusa indolenza che sembra pervadere tutto e tutti, acuita dal caldo e dalla polvere che, perennemente sollevata dal vento, a sua volta misura l’aridità della terra.

Il mio compito era di far giocare e cantare i bambini della scuola, in modo che, in luogo di ciondolare davanti alle loro case o nei campi, potessero fare un’esperienza diversa, per loro del tutto nuova.

          

Sono dei bimbi davvero deliziosi, intanto perché sono in genere bellissimi, con occhi neri che bucano e capelli acconciati con cura, le bimbe con mollette variopinte di varia foggia che talora battono loro sugli occhi.  Ma soprattutto perché, passato un primo, naturale momento di diffidenza, ti accolgono sempre con ampi sorrisi, paghi solo del fatto che tu sia lì ad occuparti di loro, senza poi fare nulla di speciale. Non sono abituati ad avere adulti che se ne prendono cura: appena sono in grado di camminare, devono provvedere in tutto e per tutto a loro stessi; e così mi stavano letteralmente appiccicati, toccandomi continuamente i capelli, le mani, le braccia… anche per misurare e scoprire la diversità. Devo ammettere che sono stati momenti molto appaganti, di grande tenerezza.

                                               

Faticano un po’ a mantenere l’attenzione e a giocare in gruppo, ma colpisce certo di più il fatto che siano felici davvero con poco e che siano capaci di lasciar andare cose e persone senza lamentarsi o fare i capricci (penso che non sappiano neanche cosa significhino!): è un lusso, quello di legarsi troppo, che non si possono permettere più di tanto.

In queste tre settimane ho conosciuto anche la bolgia disperata della frontiera che dovevamo passare tutti i giorni e lo squallore e la miseria della capitale, un susseguirsi di campi profughi, costituiti da tende improponibili, sporche, lacere, in mezzo a pattume e a bimbi che giocano comunque. Il quartiere francese, un tempo noto per la sua bellezza, è un cumulo di macerie e di palazzi mezzi diroccati, sotto e dentro i quali la gente continua a vivere e fa il mercato, noncurante della desolazione e della tristezza che la circonda.

Ho poi anche conosciuto il rispetto che è spontaneamente dato a chi, straniero, si spende in qualche modo per la gente del posto e, di riflesso, le difficoltà che una missione come questa richiede per la sua gestione ed organizzazione, assai più complesse di quanto si sia portati a credere dall’esterno.

                                             

Ho avuto, infine, persino momenti di svago e di relax, quando, nei fine settimana, Maurizio mi ha portato su una bellissima spiaggia caraibica (dove è anche sopraggiunta una tormenta tropicale: che spettacolo!) o a fare un giro ora turistico in Santo Domingo  ora naturalistico, su un’isoletta del lago Enriquillo, tra alligatori, iguana e piante grasse di una bellezza straordinaria.

Molti sono i ricordi, per non parlare delle emozioni, che mi porto dentro, ma tra tutti, accanto ai sorrisi e alle piccole mani di ciascun bimbo, ce n’è uno che mi sta particolarmente a cuore: uno degli ultimi giorni mi è venuto a cercare alla scuola un ragazzo di circa sedici anni, di un villaggio vicino, vestito elegantemente: aveva saputo che c’era un’insegnante di lettere classiche (questo sono nella mia quotidianità) e voleva chiedermi di insegnargli il latino. Naturalmente gli risposi che purtroppo non mi era possibile per ovvie, varie ragioni, ma che la sua richiesta mi aveva molto colpito: perché mai nutriva questo desiderio? “Per imparare e conoscere meglio il francese” e, dunque, per avere una prospettiva.

E così mi piace pensare che questo ragazzo rappresenti una nuova Haiti che finalmente trovi la forza e la volontà di scuotersi dal suo torpore e al tempo stesso dia una lezione di vita ai miei alunni, ai nostri ragazzi, che spesso vedo svogliati ed annoiati sui libri di scuola, quasi che, avendo tutto, non avessero più nulla da conquistare e raggiungere.

Agosto 2012

Gabriella Gavinelli