Haiti, febbraio 2010

Haiti, febbraio 2010

Non riesco a trovare le parole, non sono capace di articolare una descrizione che possa spiegare veramente ciò che ti assale mentre percorri le vie di questa città: Port au Prince.

Immagini di devastazione, cacofonia di suoni, violenza di colori, polvere, fumo e, a coprire il tutto come un sudario, questo odore, lezzo, che non riesci a toglierti di dosso, mai.

Non è Port au Prince la mia destinazione; 30 km più a ovest, Ganthier, quattro campi profughi.

Cinquemila, seimila persone – soprattutto donne, bambini, vecchi – ammassati sotto ripari improvvisati: quattro rami avvolti e ricoperti da stracci, sacchi cuciti, lenzuoli squassati e gonfiati da un vento caldo e incessante. Non ci sono tende a Ganthier: a più di un mese dal sisma siamo i primi ad arrivare qui. Non ci sono tende, non c’è cibo, non c’è acqua, non ci sono medicine, non c’è assolutamente niente a Ganthier se non una infinita dignità e un sorriso stanco che ti accoglie quando ti affacci in questi miserrimi ricoveri.

Ayiti cheri, in lingua creola “mia cara Haiti” questo è il nome dell’Organizzazione, nata a Firenze per volontà di un gruppo di fiorentini e di dominicani, che mi ha chiesto di partire per supportare tecnicamente una ONG dominicana.

Il mio compito è all’apparenza semplice e lineare: mettere in sicurezza i campi, prepararli ad affrontare i prossimi mesi quando arriverà la stagione delle piogge e degli uragani, potabilizzare l’acqua e renderla disponibile, attuare sanitizzazioni per prevenire malattie e creare una parvenza di servizi igienici.

Mi guardo attorno: un italiano, quattro dominicani e un haitiano, dodici braccia, attrezzature all’osso, materiale ancora in container sulla nave in viaggio; sguardi su di noi di una moltitudine senza speranza. Mi guardo dentro: ce la faremo, dobbiamo farcela, non possiamo permetterci di non farcela.

Una bambina, età indefinibile, mi parla in una lingua che non comprendo – creolo – faccio segno di non capire mentre con la coda dell’occhio vedo il volontario haitiano sorridere; molto seria la bimba mi prende per mano e mi trascina nel caos del campo fino ad un riparo improvvisato. Mi fa un cenno ed io entro.

In terra un pagliericcio, una donna ed un piccolo fagotto che dorme. E’ nato da due ore. Nel campo la vita continua.

Maurizio Boganelli